L’angelo ferito di Cabanel e l’ossessione moderna per la rovina

Perché ci ossessioniamo con i crolli delle star? Perché ogni scandalo di Kanye West diventa trending topic in 30 minuti? La risposta è in un dipinto del 1847: un angelo ferito, bellissimo, che piange la propria caduta.

C’è qualcosa di magnetico e tagliente nello sguardo lacrimante e ferito del Lucifero di Alexandre Cabanel, ormai celebre in tutto il mondo. In quel dipinto, l’angelo caduto non è solo un ribelle, è l’incarnazione della rovina, della bellezza spezzata, dell’eroe che ha puntato troppo in alto e si è bruciato troppo in fretta. Se osserviamo bene, però, ci rendiamo conto di quanto quest’opera sia profondamente attuale, perchè lo stesso magnetismo lo troviamo anche nelle storie degli idoli del nostro tempo: gli scandali delle popstar, i crolli pubblici dei geni maledetti, l’ambiguità affascinante della controversia. L’Angelo di Cabanel ci piace così tanto perchè ci dimostra come la caduta non sia solo rovina ma anche puro spettacolo, drammatico eppure seducente. In questo senso, quindi, quel quadro altro non è che un modo in cui la modernità rivede sé stessa in un capolavoro del passato. 

La storia di Lucifero non credo abbia bisogno di essere spiegata: la cacciata del più bello e luminoso degli angeli, che, per superbia, viene bandito dal paradiso e condannato alla caduta, trasformandosi in un simbolo di ribellione e di perdita. 

Nel corso dei secoli, questa storia ha ispirato artisti e scrittori, che hanno reinterpretato questa caduta non come una sconfitta, ma come una tragedia eroica: Milton, nel suo Paradise Lost, ce lo racconta maestoso, quasi romantico e profondamente umano, evidenziando un passaggio fondamentale: Lucifero non aveva scelto il male perchè questo fosse nella sua natura, ma lo aveva fatto per ferire chi lo aveva ferito per primo, ovvero Dio, nel suo caso. 

Cabanel, nel suo angelo caduto, raccoglie l’eredità di Milton e la trasforma in un’immagine seducente ma disturbante: il volto dell’angelo è perfetto, quasi femmineo, gli occhi sono pieni di orgoglio e risentimento al tempo stesso e il corpo è teso, quasi scultoreo. Non è però il male a renderlo interessante, ma la tensione che si crea fra la bellezza e la rovina. La caduta, allora, altro non è che un dispositivo estetico, che ci permette di osservare qualcosa di invisibile, ovvero la fragilità celata dietro la perfezione, l’ombra che accompagna la luce. 

È un dualismo che fa parte di tutto ciò che ci circonda e di tutto ciò che siamo abituati a mitizzare, ed è questo il motivo per cui ne siamo attratti, perchè questa ambiguità ci parla di vulnerabilità, di passione e di autodistruzione. Tutti elementi che, nel nostro immaginario, fanno parte del genio di ogni grande artista.  

Come Lucifero, infatti, anche l’artista moderno finisce per “bruciare troppo in fretta”, divorato dal proprio fuoco creativo e da un’industria che non ha pietà, i cui ritmi portano spesso agli eccessi, all’utilizzo di sostanze e alle scelte controverse. È quasi un concetto ottocentesco, dal’Ottocento infatti l’immagine dell’artista maledetto e dell’angelo caduto si sono come sovrapposte, in una dicotomia che è sempre rimasta attuale: entrambe figure splendenti, in grado di toccare vette inarrivabili per gli altri, eppure inevitabilmente destinate a cadere fra eccessi, autodistruzione e, a volte, follia. Nel tempo questa autodistruzione è diventata quasi una prova di autenticità della personalità artistica: soffrire, eccedere, cadere, sembrano quasi passaggi obbligati per vivere fino in fondo l’esperienza dell’arte e per rendere l’artista più credibile. È come se questo si fosse cristallizzato in un’estetica precisa, che intreccia bellezza e dolore in modo indissolubile. 

E se nell’Ottocento la figura dell’artista maledetto e bohémien incarnava la figura di Lucifero, oggi quella figura sopravvive nelle biografie delle pop star. La modernità eredita da questo status non solo il gesto della caduta, ma anche il suo linguaggio visivo, il suo simbolismo, come se la “dannazione” non fosse solo un castigo, ma uno stile, una posa, una sorta di destino estetizzato che affascina perchè ci mostra la grandezza nell’attimo della sua distruzione. In questo senso, Lucifero, è la matrice segreta con cui ancora mitizziamo gli idoli del nostro tempo. 

La nostra epoca, però, non produce eroi tragici in dipinti o in versi, ma li espone e li consuma sui palchi e nei feed dei social. Forse l’esempio più lampante è Michael Jackson: il “re del pop” che è andato verso la sua progressiva distruzione, smembrato e alterato dalla Chirurgia, oppure Amy Winehouse, che è svanita fra le ombre della dipendenza lasciando un’eco indelebile. 

E poi c’è Kanye West (o forse dovrei chiamarlo Ye), che forse è il Lucifero del nostro tempo per eccellenza: genio visionario capace di ridefinire e plasmare il suono, l’estetica e la moda del nostro tempo, eppure costantemente trascinato nel vortice della follia pubblica, fra dichiarazioni assurde e complessi di Dio. La sua parabola è emblematica nella cultura dello spettacolo odierna, perchè è partecipata: non ci limitiamo a guardarla, la seguiamo in diretta, la commentiamo e la facciamo diventare intrattenimento globale. La sua tragedia altro non è che uno spettacolo in cui ad attirarci è proprio vedere la fine che ha fatto il genio di Graduation

La verità è che il motivo per cui amiamo L’Angelo di Cabanel è perchè ci permette di vedere l’altra faccia della perfezione, ed è come se ci facesse sentire un po’ meno imperfetti, perchè vedere un angelo cadere è una sorta di atto di voyeurismo del nostro tempo: ci rassicura, perchè ci ricorda che anche chi brilla può spezzarsi, ma allo stesso tempo ci attrae, perchè trasforma la fragilità in spettacolo. In una società che idolatra il successo e la performance costante, la caduta diventa la scena catartica che rimette in equilibrio la narrazione: ci mostra che la gloria non è eterna, che l’ascesa ha sempre come controcanto la discesa.

Il volto ferito dell’angelo di Cabanel continua a guardarci proprio per questo: perché nei suoi occhi vediamo riflessa la vertigine che proviamo davanti a ogni idolo che crolla. Non è solo la bellezza che ci seduce, ma la sua incrinatura; non è solo la luce, ma l’ombra che la accompagna. Amare la rovina, allora, significa riconoscere che il mito più potente non è quello dell’eroe senza macchia, ma quello dell’anti-eroe che ci ricorda, nel suo cadere, quanto fragile e meravigliosa sia la condizione umana.