Il Feticismo degli oggetti quotidiani

Una lattina di zuppa Campbell’s del 1962 in un supermercato sarebbe costata pochi centesimi, ma appesa alle pareti del MoMA di New York vale milioni di dollari. Non è magia, è semplicemente musealizzazione – quel processo attraverso cui il contesto istituzionale trasforma radicalmente la natura di un oggetto, elevandolo dal regno dell’uso quotidiano a quello dell’arte e del sacro.

Il feticismo degli oggetti comuni, che oggi è onnipresente, non è un fenomeno nuovo, ma nella contemporaneità ha assunto dimensioni inedite. Dalle sneakers vendute a cifre astronomiche agli smartphone conservati come reliquie tecnologiche, viviamo in un’epoca in cui la distinzione tra oggetto d’uso e oggetto di culto si è fatta sempre più labile. 

Ma quando e come avviene questa metamorfosi? E soprattutto, chi o cosa decide il momento in cui un cucchiaio smette di essere un utensile per diventare arte?

L’attribuzione di significati simbolici e sacrali agli oggetti quotidiani affonda le radici nella storia dell’umanità. L’antropologia ci insegna che ogni cultura ha sviluppato forme di feticismo materiale: oggetti comuni che, attraverso rituali, narrazioni o semplice ripetizione d’uso, acquisiscono proprietà straordinarie. Il martello di Thor, la spada di Artù, oppure anche le reliquie dei Santi – tutti esempi di come la dimensione narrativa e simbolica possa trasformare il banale in sacro o addirittura in mitologico. Tuttavia, ciò che caratterizza la modernità è la democratizzazione di questo processo. Se un tempo erano le istituzioni religiose, aristocratiche o comunitarie a decidere quali oggetti meritassero venerazione, oggi assistiamo a una proliferazione di “altari laici” dove chiunque può consacrare il proprio feticcio personale.

Andy Warhol, Campbell’s Soup Cans, 1962

Il 1917 segna uno spartiacque fondamentale in questo processo: era l’anno in cui Marcel Duchamp presentò la sua Fountain – un comune orinatoio di porcellana firmato “R. Mutt” – alla Society of Independent Artists di New York. Duchamp, con quel gesto, non stava semplicemente provocando il mondo dell’arte, stava teorizzando una nuova concezione dell’oggetto artistico. Il ready-made duchampiano rivela che l’arte non risiede nell’oggetto in sé, nella sua bellezza intrinseca o nella maestria tecnica del suo creatore, ma nel gesto di designazione e, soprattutto, nel contesto che lo accoglie. L’orinatoio diventa arte nel momento in cui viene sottratto al suo ambiente funzionale e ripresentato in un nuovo contesto significante in grado di elevarne lo status. È una rivoluzione: non è più l’artista che crea l’arte manipolando la materia, ma il sistema dell’arte che riconosce come tale il suo gesto.

La musealizzazione rappresenta oggi la forma più potente di questa trasformazione. Il museo, tempio laico della modernità, possiede il potere quasi magico di trasfigurare qualsiasi cosa attraversi le sue soglie. Una semplice sedia di plastica, esposta sotto i riflettori di una sala museale con la sua didascalia, smette immediatamente di essere un semplice mobile e diventa opera, testimonianza, simbolo. 

Il museo, quindi, funziona come una “macchina del sacro” che opera attraverso diversi dispositivi simultanei come lo spiazzamento spaziale, in cui l’oggetto viene sottratto al suo contesto d’origine e ricollocato in uno spazio neutro, asettico, progettato per focalizzare l’attenzione sulla pura presenza dell’oggetto. Poi c’è il regime temporale: il museo ferma il tempo dell’oggetto, sottraendolo al logorio dell’uso e consegnandolo all’eternità della conservazione. La mediazione critica fornisce nuovi strumenti interpretativi attraverso didascalie, audioguide e cataloghi che sovrascrivono la funzione originaria. Infine, ovviamente, l’aureola economica: l’ingresso nel circuito museale conferisce automaticamente valore economico e simbolico.

Esempi recenti dimostrano quanto sia potente questo meccanismo: la conservazione al MoMA del primo iPhone o della Vespa del 1955, l’ingresso nelle collezioni permanenti di oggetti comuni come sedie di plastica o contenitori alimentari. Ma la musealizzazione non avviene solo nei templi ufficiali dell’arte: oggi assistiamo a forme di sacralizzazione diffusa che attraversano il collezionismo privato, il vintage, la moda e persino il mondo digitale.

Prendiamo le sneakers. Un paio di Air Jordan del 1985, mai indossate, può valere decine di migliaia di euro. Non per la sua funzionalità, ma per il complesso sistema di significati che si è stratificato attorno ad esso: la mitologia di Michael Jordan, la nostalgia per gli anni Ottanta, la rarità, il design iconico e via dicendo. In questo modo, la Sneaker da collezione diventa reliquia di una cultura pop che ha elevato lo sport e lo streetwear a fenomeno artistico e sociale.

Questa dinamica non si ferma certo solo alla moda, ma riguarda anche gli oggetti tecnologici vintage. Il primo Macintosh, conservato gelosamente in garage o esposto in musei del design, non è più un computer ma un monumento ad una rivoluzione culturale. 

L’era digitale ha moltiplicato e virtualizzato questi processi. Instagram e i social media hanno democratizzato la musealizzazione, permettendo a chiunque di creare il proprio “museo personale” attraverso la fotografia e la curation degli oggetti quotidiani. La piattaforma digitale funziona come una galleria infinita dove ogni oggetto può aspirare al suo momento di gloria estetica.

Ma forse l’aspetto più interessante di questo feticismo contemporaneo è la sua capacità di rivelare le contraddizioni del nostro tempo. Mentre il mondo accelera verso la smaterializzazione digitale, cresce paradossalmente l’attaccamento agli oggetti fisici. Mentre critichiamo il consumismo, eleviamo i prodotti di massa a status di arte. Mentre tutto diventa usa e getta, cerchiamo disperatamente oggetti che durino nel tempo e nel significato.

Il feticismo degli oggetti quotidiani ci parla quindi di molto più che di arte o collezionismo. Ci racconta il bisogno umano di dare senso al mondo attraverso le cose, di creare continuità in un’epoca di cambiamento perpetuo, di trovare il sacro in un mondo sempre più secolarizzato. Ogni oggetto che eleviamo a feticcio è un piccolo altare alla nostra umanità, un tentativo di fermare il tempo attraverso la materia.

La lattina Campbell’s di Warhol rimane lì, appesa al muro del museo, a ricordarci che la distinzione tra arte e vita, tra sacro e profano, tra prezioso e comune, è sempre e solo una questione di sguardo. E che forse, in fondo, è proprio questa capacità di trasformare il banale in straordinario la più misteriosa e necessaria delle arti umane.